Mentre tornavo a casa, il mio sguardo si posò su un passerotto ferito. Avanzava arrancando con la zampetta sinistra ripiegata sotto il corpo e l’altra distesa verso l’esterno in modo innaturale, incapace sia di volare che di camminare.
Lo osservavo contorcersi tra il marciapiede e le mura dei palazzi, e ogni tanto schizzare verso il ciglio della strada con un movimento scomposto dell’ala, poi di nuovo procedere a balzelli irregolari, forse sospinto solo dai muscoli del collo e dalla testa, che teneva schiacciata a terra.
Non potevo far altro che restare in piedi, ferma, e osservarlo. Non ho mai avuto tanta dimestichezza con gli animali, quelli vivi. Gli uccelli, poi, anche quelli piccoli, mi hanno sempre suscitato un ottuso senso di repulsione. Napoli è una città piena di piccioni e motorini, e molto spesso i secondi hanno la meglio sui primi, dispensando scene di morte cruenta a bambini inermi.
I piccioni, si può dire, mi hanno insegnato per primi il significato della morte.
Così, non ho mai osato toccarne uno. Solo il pensiero di quel fremito piumato mi fa rabbrividire ancora oggi. Il film « Gli uccelli » di Alfred Hitchcock, che vidi per la prima volta a sette anni, ci mise il resto. Per settimane ebbi paura di uscire da sola sulla terrazza.
Ero paralizzata: non riuscivo ad agire, né a distogliere lo sguardo da quella povera bestia.
Dopo un po’, si fermò un altro passante. Restò lì a fissare la scena per pochi secondi, poi si dileguò, alla stessa velocità con cui era arrivato, lasciandoci di nuovo soli, me e l’uccellino malato.
Da dietro l’angolo fece capolino un secondo uomo. Piccolo, stempiato, con gli occhiali e la camicia bianca dentro i pantaloni. Iniziò a osservare l’animaletto con apprensione : « Poverino ! Vero ?» gridai al signore, cercando di trattenerlo.
La bestiola, continuava a dimenarsi. Volevo portarlo a casa, cercare un veterinario, ma come facevo per avvicinarmi, visualizzavo l’immagine del mio pugno troppo stretto intorno al corpicino grigio, la sensazione di ossicini vuoti che si spezzano, interiora, sangue e sensi di colpa.
Traumi.
L’uccellino, nella sua delirante danza a zig zag, si spinse fino all’orlo del maciapiede. Poi sulla strada.
Sul corso Meridionale le automobili e gli autobus erano tornati a correre, più di prima, dopo due mesi di stop forzato.
Il signore con la camicia bianca si dileguò, come aveva fatto il precedente.
Mi guardai intorno, cercando di incrociare gli occhi di chi avrebbe saputo aiutarci. Il distanziamento a cui eravamo obbligati da due mesi e mezzo a causa dell’epidemia rendeva il compito più difficile.
Pochi istanti dopo, il signore con la camicia bianca fece ritorno, brandendo uno strofinaccio. Si chinò sull’uccellino per prenderlo. Quello balzò in avanti, sotto una macchina. « Non andare in mezzo alla strada ! » gridò il signore, con la voce rotta dalla preoccupazione. L’uccellino, testardo e spaventato, continuava la sua fuga disperata. Lo vidi spuntare da sotto la portiera dell’auto, e lo indicai al signore con la camicia bianca. Di nuovo, quello fece per prenderlo, ma l’uccellino, terrorizzato, gli sfuggì con un balzo scomposto dell’ala, che lo fece schizzare in alto, molto più in alto di quanto mi era sembrato fosse possibile, fino a quel momento.
Miracoli della paura.
Il signore con la camicia bianca ora sembrava totalmente concentrato su quell’operazione di salvataggio, lo sguardo angosciato dietro gli occhiali spessi dalla montatura dorata, le tempie imperlate di sudore.
L’uccellino era di nuovo sotto un’automobile. Per prenderlo, il signore con la camicia bianca fece il giro intorno alla macchina, andando a finire così in mezzo alla strada. Ora temevo per lui, mentre i veicoli sfrecciavano a pochi centimetri dal suo corpo, che avanzava e indietreggiava lentamente, carponi sull’asfalto, la testa sotto l’automobile nel tentativo di individuare l’animale nascosto.
Li vidi rispuntare da dietro il veicolo: il signore con la camicia ora non più bianca, ma tutta imbrattata, stringeva trionfante l’animaletto nel pugno sinistro. Senza mai perdere la tenerezza.
«Io ho capito che tu ti sei fatto male » sussurrò il signore con la camicia bianca all’uccellino grigio : «ma è sabato sera, e non ti posso portare da nessuna parte. C’è solo uno a via Carbonara, ma quello si fa pagare, e io mò non tengo tanti soldi ».
« A via Carbonara quanto si prendono ? » Chiesi al signore con la camicia bianca : « non lo so, non ci sono mai stato per un uccello » rispose lui, senza staccare gli occhi dalla bestiolina, che ora teneva delicatamente tra le due mani, avvolta nello strofinaccio.
« Se ha tempo da perdere, potremmo andare… » iniziai. Non feci in tempo a finire la frase, che il passerotto aveva preso a divincolarsi tra le mani del signore con la camicia bianca : « Stai buono ! Stai buono ! Stai buono ! » gli diceva quello con tono deciso, e ad ogni parola si allontanava a passo più svelto verso la sua auto.
Sparì.
Feci appena in tempo a vedere la sua sagoma dietro al finestrino. Riuscii solo a immaginare quella del passerotto sul sedile accanto, dentro lo strofinaccio.
Lanciai un ultimo sguardo alla piccola utilitaria, bianca pure quella, poi me ne andai per la mia strada.
Timidamente, si fece avanti dentro di me una sensazione, vaga, esitante, che l’umanità non fosse poi del tutto perduta.